Gennaio

Gennaio è, per ogni buon giardiniere, il mese in cui fare ordine. Controlla lo stato degli attrezzi messi al riparo, ripulisce i vasi per le future semine, scarta e getta quelli rotti. Scende in giardino soprattutto per passeggiare e ammirare l’azione del gelo, che benefica il terreno e crea, posandosi sugli alberi, sui fili d’erba, sulle foglie cadute, quadri d’autore incomparabili e impareggiabili. Sfoglia cataloghi, riviste e manuali di giardinaggio – almeno… questo è ciò che faccio io – nelle lunghe sere della stagione davanti al calore della stufa.

Sono andata a cercare l’etimologia della parola gennaio. Viene dal latino (mensis) Januarius, mese dedicato a Giano. Fu Numa Pompilio, il secondo dei sette Re di Roma, a introdurre, intorno al 713 a.C., nel calendario il mese di gennaio, assieme al mese di febbraio. Fino ad allora, infatti, era rimasto in vigore il calendario stabilito da Romolo, che iniziava col mese di marzo e contava 10 mesi e 304 giorni, al quale veniva aggiunto, in maniera non ufficiale, un certo numero di giorni, in modo che i contadini potessero regolarsi con le semine e i raccolti. Numa decise di riformarlo basandosi sul ciclo della Luna e lo portò a 355 giorni. Il calendario numiano era quindi più breve di circa 10 giorni rispetto all’anno solare. Per correggere questa discrepanza e far sì che il ciclo delle lunazioni si accordasse con l’anno solare, furono introdotti i periodi intercalari: un anno sì e uno no, dopo il giorno dei Terminalia (il 23 febbraio), si inseriva un mese, il mercedonio (il mese della retribuzione, perché era quello il periodo in cui ai lavoratori veniva corrisposta la paga), alternativamente di 22 o 23 giorni.  
Poiché spettava al Collegio dei Pontefici il compito di correggere il calendario e poiché spesso lo facevano in maniera empirica e arbitraria (dettata da motivi politici e di convenienza), ogni tanto veniva omesso il mercedonio.

Per porre fine alla confusione che si era venuta a creare e per mettere ordine nella computazione dell’anno, nel 46 a.C. Giulio Cesare, valendosi della consulenza scientifica dell’astronomo alessandrino Sosigene per la sua riforma, decise di istituire il un nuovo calendario civile (il calendario giuliano). Era anch’esso un calendario solare, contava dodici mesi e durava 365 giorni. Per compensare la differenza di circa sei ore (un quarto di giornata) in meno rispetto all’anno solare, il nuovo calendario prevedeva l’intercalazione di un giorno una volta ogni quattro anni. Come il mese mercedonio del calendario numano, il giorno in più veniva in origine posto dopo la festa dei Terminalia (23 febbraio), e cioè, secondo il modo romano di indicare le date, il sesto giorno prima delle calende di marzo. Essendo tale giorno raddoppiato, era detto bis sextus dies (due volte il sesto) ante calendas martias e bisestilis l’anno di 366 giorni, nome che ha mantenuto fino ad oggi.

Col nuovo calendario, gennaio divenne il primo mese dell’anno. Per meglio dire, divenne di nuovo: infatti, sebbene Romolo avesse stabilito marzo primo mese dell’anno, il quinto re di Roma, Lucio Tarquinio Prisco, decise, intorno al 600 a.C., di sostituirlo con gennaio, perché dedicato a Giano, il dio da cui tutto ha inizio. Il cambiamento durò per un breve tempo: quando la dinastia etrusca, cui Tarquinio apparteneva, fu spodestata, marzo tornò a essere il primo mese dell’anno.

Ho fatto qualche ricerca sulla figura del dio Giano. È una delle divinità romane più antiche. È una delle poche esclusivamente romane e italiche, a differenza della maggior parte, assunta dalle divinità della tradizione greca. Secondo la leggenda, fu il mitico sovrano dell’età dell’oro, colui che portò la civiltà e le leggi tra i popoli primitivi del Lazio.
Giano è il protettore degli inizi, dei passaggi, di ogni forma di cambiamento. Viene rappresentato con due volti, uno rivolto al futuro e l’altro al passato. Gennaio è, quindi, il mese che apre le porte dell’anno nuovo.

Chiudo il mio taccuino del giardiniere di gennaio con una poesia di Rainer Maria Rilke, intitolata, per l’appunto, Gennaio.

Respirano lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo, via via.
Le candide strade si fanno più zitte:
le stanze raccolte, più intense.
Rintoccano l’ore. Ne viene
percosso ogni bimbo, tremando.
Di sovra gli alari, lo schianto di un ciocco
che in lampi e faville , rovina.
In niveo brillar di lustrini
il candido giorno là fuori s’accresce,
diviene sempiterno, infinito.

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